IL PIL NON FA LA FELICITA?
Gli indici alternativi del benessere
Il Bhutan sarà ricordato come il primo paese al mondo ad avere introdotto un indice nazionale della felicità che sia alternativo al Pil. Era il 1972, il re del piccolo stato d'Oridnete introdusse il Fil (Indice di Felicità Interna Lorda, GNH in inglese) con connotazioni buddiste e anti-occidentali, sostenuto dal Dalai in persona.
L'inadeguatezza del Pil, che cresce per qualsiasi transazione economica (dalle economie di Mafia alle speculazioni sull'accoglienza agli immigrati, come Mafia capitale insegna; dalle conseguenze degli incidenti stradali a quelle da inquinamento) ha favorito, negli ultimi anni in particolare, un proliferare di indicatori alternativi caldeggiati dalla commissione Stiglitz-Sen-Fitoussi istituita nel 2008 dalla Francia di Sarkozy. Tra le raccomandazioni della commissione Stiglitz (dal nome dell'economista premio Nobel) quelle di valutare il benessere materiale sulla base di redditi e consumi, piuttosto che della produzione; di dare importanza alla distribuzione tra ricchi e poveri evitando medie matematiche; di estendere gli indicatori ad attività non direttamente legate al mercato, quali sanità, ambiente, educazione ecc. Insomma, di pensare alla qualità della vita e alla sostenibilità dello sviluppo e non solo alla massimizzazione dell'interesse.
Oggi gli indici alternativi sono più di 30, si va dall'indice di sviluppo umano (Hdi in inglese) all'Indice dell'impronta ecologica. Tra i più apprezzati l'italiano BES, che misura il benessere equo sostenibile, nato da un'iniziativa congiunta del Cnel e dell'Istat. A distinguerlo dagli altri è la procedura partecipata da cui è originato: è stato chiesto direttamente ai cittadini quali fossero per loro gli ambiti del benessere (12 quelli emersi). L'ideale sarebbe adottare un misuratore unico e seguirlo nel tempo...
Uno studio dell'Onu sulla felicità del Pianeta, il World Heppiness Report,evidenzia che i tre quarti delle differenze tra le 125 nazioni che hanno partecipato allo studio, si giocano su seu variabili: sostegno sociale, reddito pro-capite, speranza di vita, fiducia, libertà nel prendere decisioni, generosità. Tra queste le prime tre sono le più importanti. Oltre al reddito quindi, ad avere un peso rilevante, anzi decisivo, è lo stock di "capitale sociale", ossia quei fattori collegati alla qalità della vita di relazione, alla voglia di cooperazione, alla fiducia nelle classi dirigenti, alla vicinanza tra cittadini e istituzioni. Il filo comune di tutte le misurazioni del benessere individuali e collettive, è che sono fortemente influenzate dalla qualità del contesto sociale, normativo e istituzionale.
Si sottolinea ancora come la vicinanza del cittadino alle istituzioni sia uno dei motivi chiavi della felità. Non a caso i paesi piccoli o medio-piccoli compaiono ai primissimi posti- La classifica della happiness vede primeggiare la Svizzera con un buon grado di fiducia e soddisfazione nel presente e in chi lo governa. A seguire un plotone di paesi nordici (Islanda, Danimarca, Norvegia, Finlandia, Olanda e Svezia). La Germania è 26^, la Francia 29^ e l'Italia... 50^. Colpisce il fatto che la stessa crisi economica non abbia inciso sulla felicità dell'Islanda dopo il tracollo finanziario e dell'Irlanda. Paesi che hanno saputo ricompattaesi, risponendendo con la coesione sociale alle avversità contrarie. In coda al gruppo invece vi sono paesi in guerra.
Nonostante emerga che non è solo il reddito e il mercato a fare la felicità di un popolo, il Pil che si muove ad ogni transazione, che sia buona o cattiva, deve essere ancora spodestato. Era il lontano 1968 quando Robert Kennedy diceva che "in breve, misura tutto, eccetto quello che rende la vita veramente degna di essere vissuta".